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Oasi

Oasi

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A Turi avevano detto che quella sarebbe stata una vita da cani, esposto sempre al freddo e alle intemperie e, quando il sole scotta, al riverbero del pietrisco infocato che brucia gli occhi e incolla la lingua al palato; avevano insistito ché rimanesse tra loro, perché il pane sul mare lo si guadagna comunque e che infine un aiuto, un consiglio, un conforto se lo potevano dar l’un l’altro, venuti insieme su dall’infanzia, con negli occhi stemperato il ceruleo di quel mare limpido e immenso,

dal quale non potevano staccarsi senza un rimpianto nel cuore e un senso di smarrimento nell’animo.

Eppure a lui era toccato staccarsi presto da quei luoghi familiari, dove uno scoglio, un angolo di mare, una stradicciola, una casa gli facevano tornare alla memoria, come fossero di ieri, episodi gustosi e piccanti, lieti e tristi, che lo avevano accompagnato dall’adolescenza alla giovinezza e avevano quasi plasmato il suo carattere, permeandolo di semplicità e di buonsenso insieme.

Era dovuto partire per la guerra appena ventenne e vi era andato con la consapevolezza di compiere un dovere. Nel suo istinto avvertiva che essa era una cosa stupida; questo però non poteva impedire che durasse a lungo e lasciasse tracce sempre più dolorose fra le genti in mezzo alle quali passava, creando barriere di incomprensione e di odio.

Poi vennero i lunghi anni di prigionia; giorni e notti interminabili in cui ogni atto, ogni sospiro, ogni parola sembrano essere spiati da altri uomini gravati dal tristo compito di una sorveglianza cui farebbero volentieri a meno, solo che un gesto di comprensione o un sorriso facesse scoccare la scintilla di simpatia che fa di un altro uomo all’istante un fratello.

Infine il ritorno al suo paese; l’accoglienza calda e affettuosa di amici e parenti, molti dei quali aveva lasciato ancor giovani e che ritrovava con i capelli grigi e con i segni delle sofferenze sul volto; l’unione con una giovine donna alla quale aveva promesso il suo amore e che aveva desiderato appassionatamente nel lungo tempo trascorso lontano da lei.

Egli affrontò con entusiasmo la nuova vita e le responsabilità che si era assunte creandosi una famiglia. Ma ai primi tempi di facili guadagni e di illusoria abbondanza, sopravvennero giorni difficili; passarono delle settimane e poi dei mesi senza che nel piccolo porto comparisse una nave o un bastimento per le operazioni di scarico e carico merci; parve che il fervore di opere che aveva accompagnato le truppe degli eserciti vincitori fosse passato insieme con esse e che pian piano tutta la vita della grande isola fosse ripiombata nell’indifferenza e nel torpore che non l’avevano risparmiata nei tempi trascorsi.

Ma Turi aveva avuto nel frattempo due bimbe; sapeva ormai per esperienza come l’uomo si rassegna e più spesso s’abbrutisce se non trova in sé la forza e la volontà di superare i primi ostacoli. Nessun lavoro gli riusciva penoso e nessuno ne rifiutava; poi andò a cercarselo, a chiederlo, perché alla sua Nunzia e alle bimbe non mancasse il necessario alla vita; e il necessario per loro, abituati ad una vita frugale, era veramente di poche cose.

Nelle lunghe ore di forzato riposo sostava sulla spiaggia con la canna da pesca e nelle notti di bonaccia si recava al largo insieme ad alcuni amici, servendosi di una vecchia barca a motore, mossi dalla speranza di una pesca più fruttuosa per mezzo delle reti a maglia e di quelle volanti.

Ma anche il mare, specie lungo la costa, era avaro di pesce, come se la cattiveria degli uomini, che lungi dall’amarsi e comprendersi avevano usato ogni mezzo per sopraffarsi a vicenda, avesse spinto gli animali di ogni specie il più lontano possibile da loro, in cerca di angoli sicuri e riposti.

Turi lesse nei visetti emaciati delle bimbe un’accusa che pesava più di ogni parola e per la seconda volta, mosso da un dovere infinitamente più bello e più grande del primo, decise di lasciare la sua gente, i luoghi a lui cari, gli amici, i ricordi, perché fiorisse di nuovo sulle labbra della sua Nunzia il sorriso e le bimbe ritornassero floride come le giovini piante che hanno bisogno di sole.

Accettò il lavoro di cantoniere che gli era stato offerto e tenne le orecchie chiuse ad ogni genere di esortazione contraria, perché non parlassero in lui i sentimenti e non sentisse prepotente il desiderio, la gioia piena di vivere la sua vita libero tra le arene infocate, le acque tiepide, le verdi scogliere del suo luogo natio; non perché non avvertisse l’armonia che si stabilisce fra un corpo vigoroso ed agile e il liquido elemento dal quale gli sembrava di essere nato per il naturale trasporto che ad esso lo spingeva. Anzi egli si rendeva conto, prima di iniziare il nuovo lavoro, della dissonanza grande tra i suoi sogni e la realtà alla quale andava incontro; era sicuro che bisognava stringere i denti per non cedere, dimostrare un volto contento perché Nunzia non gli leggesse negli occhi quasi l’accettazione di un sacrificio.

*     *     *

Un piccolo cubo rossastro sperduto tra un mare di lentischi e ginestre e, lontano, sabbia e poi sabbia ancora, a perdita d’occhio; una pace grande, quasi il tempo si fosse fermato sulle cose, se l’alternarsi della notte e del giorno non convincesse del contrario; solo a distanza di ore il rumore assordante di un treno e la terra scossa d’improvviso come da un tremuoto che pareva sprigionasse da ignote cavità un vento rapido e avvolgente, della durata di attimi.

In questo piccolo mondo, senza altri orizzonti, quattro creature vivevano ormai la loro vita. Ma quattro esseri che si integravano a vicenda, che non avrebbero potuto fare a meno l’uno dell’altro, senza che venisse inesorabilmente turbata quell’armonia che li rendeva un tutto unico, come un fascio di note varie e concordi.

Per Turi quella era la sua piccola, grande oasi. A sera o quando il sole dardeggiava alto nel mezzo del cielo, egli tornava stanco alla casetta che era l’unico punto di riferimento in quella uguale, monotona solitudine e gli pareva di andare per un deserto nel quale a distanza un palmizio gli indicasse un segno di vita. Allora dentro gli cresceva una sete nuova ed egli accelerava il passo andando avanti a occhi socchiusi, perché in quel suo deserto vi era una via tracciata e sicura, dallo splendore dell’argento fuso.

Batteva ritmicamente  sulle rotaie con una leva; e il suono, nella pace di quella terra dormiente, si ripercoteva lontano e le bimbe accorrevano l’una dietro l’altra a quel noto richiamo e con le manine facevan schermo agli occhi dei raggi del sole, mentre un grido di gioia partiva da quella che per prima avvistava il babbo. Turi si avvicinava ad esse felice e non un segno di stanchezza traspariva dal suo volto; le sollevava sulle braccia, le faceva sedere sulle ginocchia e si abbeverava in quegli occhi limpidi, dolci di soffusa innocenza, e annegava in quell’azzurro, intenso come il suo mare lontano; sogni e pensieri. Nunzia gli portava una tazza di acqua fresca e limone e senza avvedersene gli carezzava i capelli neri come l’ala di un corvo.

Poi le bimbe domandavano, insistevano per sapere dove andavano tutti quei treni che sfrecciavano davanti ai loro occhi e che restavano a guardare con un senso di timore e di rispetto. Dicevano a Turi che qualche volta avevano visto altre bimbe, belle come bambole, che tenevano il nasetto appiccicato ai vetri e agitavano i braccini in segno di saluto; dicevano che doveva essere tanto bello andare su quei treni e correre più veloci del vento e vedere tanti e tanti luoghi nuovi.

Turi allora scarruffava i loro capelli come per scacciare dalle loro testoline tali pensieri, le stringeva al suo petto e con aria allegra, come se raccontasse una favola interessante, diceva che non vi era al mondo un luogo più bello e tranquillo della loro casa, fiori più delicati di quelli delle ginestre, aroma più puro di quello della resina dei lentischi. Poi correva a nascondersi dietro la casa e di là dietro un arbusto e più lontano ancora, tra i ciuffi di ginestra. E le bimbe a corrergli dietro con lieti strilli, facendo finta di non vedere dove stava nascosto e infine piombargli addosso con simulato affanno, stringere con tutte e due le manine, una di qua una di là, le robuste mani di Turi e condurlo “prigioniero” al cospetto della mamma che il “cattivo” aveva lasciato sola sola.

A notte Turi sostava ancora per un certo tempo all’aperto; gli piaceva starsene seduto con le mani incrociate sul petto, mentre il suo sguardo vagava in alto, in cerca di quelle stelle che le notti di prigionia in Africa vedeva più basse sull’orizzonte e che ora brillavano nel mezzo del cielo.

Aveva parlato con esse un giorno e ad esse aveva affidato messaggi di amore e speranza. Ora il dialogo riprendeva in forma più semplice e umana.

Dicevano a Turi le stelle che gli uomini corrono, litigano, s’affaticano nel tormento di raggiungere una meta dietro l’altra e che quasi sempre essi ignorano, in questo inutile affannarsi, il danno che arrecano a se stessi e agli altri; che raramente essi distolgono il loro sguardo dalle cure e dagli interessi terreni per bearsi di quella cristallina immensità, non solo con la preghiera, ma con la disposizione, propria delle creature intelligenti, di essere veramente  probi e virtuosi.

La tenue luce che pioveva da esse brillava sui vetri delle anguste finestre dietro le quali le sue bimbe ormai riposavano. Turi come preso da una preoccupazione improvvisa, si alzava di scatto, rientrava in casa e pian piano, per non svegliarle, si avvicinava ai lettini delle bimbe per spiare il loro sonno tranquillo.

Temeva che quella dolce innocenza potesse essere distrutta, che anche alle sue bimbe le stelle potessero un giorno o l’altro svelare gli aspetti meno belli della vita e tracciare le prima ruga sulle loro fronti serene; quel giorno, forse, sarebbe sorto prepotente nell’animo loro il desiderio di vedere, conoscere il mondo, rifuggire da quella solitudine che avrebbero considerata loro nemica.

Quel giorno, certamente, la sua oasi si sarebbe confusa con il deserto dattorno e si sarebbero essiccate le sue sorgenti fresche e limpide.

Egli allora si sarebbe trascinato quotidianamente per un deserto infinito: per dare ristoro alle labbra le avrebbe inzuppate con le sue lacrime, per dar tregua alla sete si sarebbe gettato con la bocca avida sul nitore delle rotaie, come su due rivoli d’acqua pura.

di Fedor Nicolay Smejerlink