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Il pàpparo

Il pàpparo

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Per la strada che dal villaggio di S. Pietro porta alla marina di Vibo Valentia scendeva quella mattina il pàpparo, scalzo come sempre, il tamburo a tracolla, assonnato per il lungo vegliare, desideroso di giungere quanto prima gli fosse possibile alla sua misera stamberga e lì gettarsi di peso sul giaciglio per un po’ di riposo.

Ricontava le manciate di monetine che il parroco e i campagnoli gli avevano dato, il primo finita la festa, gli altri man mano che avanzava suonando e precedendo la miracolosa immagine del loro protettore tra le quattro case del villaggio e le altre poche coloniche che gli stanno attorno; ma a contarli e ricontarli erano sempre gli stessi.

Li cacciò in tasca e s’immerse nei suoi pensieri. L’alba era inoltrata e un biancofiore diffuso si spandeva per la campagna, sulla strada, sul mare. Al trenta di giugno in Calabria fa caldo prima che spunti il sole e andare per le sue strade non è agevole, specie su quella dove il pàpparo avanzava, tutta cosparsa di un pietrisco minuto e tagliente, che metteva persino a dura prova le sue piante, indurite dai calli, dalla tramontana e dal solleone.

La sua vita era tutta lì, in quel suo aggirarsi di paese in paese, di villaggio in villaggio, per suonare il tamburo, l’unica sua ricchezza, e guadagnarsi un tozzo di pane e un bicchiere di vino. Della minestra gliene importava poco; la mangiava quando qualche contadino o il parroco gliela offrivano di buona voglia, perché non era tipo da accettare il primo invito. Gli bastava per companatico un pugno di olive secche, una cipolla, un po’ di olio e pepe buttati in mezzo al pane caldo.

La natura non era stata benigna con il papparo, ma egli non se ne doleva. Un leggero sorriso gli aleggiava sempre sul volto, coperto per intero dalla barba rossiccia che non rasava mai, contentandosi di accorciarla a colpi di forbice quando incominciava a dargli fastidio. Rossicci aveva i capelli, le ciglia, i peli sulle braccia e sul petto e gli occhi piccoli e azzurri si aprivano appena sotto le palpebre stanche. Era più grosso che alto e si muoveva lentamente per colpa delle gambe piccole e deformi. A far la parte di Calibano, non sarebbe dovuto ricorrere ad alcun accorgimento, tanto somigliante lo aveva fatto natura al maligno schiavo di Prospero.

Ma nel suo petto vi era un cuor d’oro; quello di un bimbo straordinariamente buono, che sopporta le bizze, gli scherzi, i capricci dei suoi compagni di gioco. Quando non aveva nulla da fare, sedeva davanti alla sua stamberga e suonava il tamburo, in modo dolce, calmo, ben accetto; e i ragazzi a radunarglisi attorno, a far capriole, a tentar d’imitare con la bocca quel suono che non dava fastidio ai timpani di nessuno, che anzi aveva l’aria di un infantile, profondo richiamo. Sonando gli accadeva talvolta di appisolarsi, inavvertitamente, vinto da un torpore che pervadeva tutto il suo essere; il capo reclinava mollemente sulla spalla e le braccia cadevano in dolce abbandono sulle gambe, mentre le mani stringevano delicatamente le due mazzuole, come se si trattasse di due esseri viventi per i quali si abbia il miglior riguardo. Uno strano angelo di Luca della Robbia, che abbia lasciato momentaneamente le corde dell’arpa.

Sudava; e un prurito sempre più fastidioso lo prendeva dal collo ai polpacci. Pareva che al calore di dentro e di fuori mille e mille bestiole sinora sopite s’andassero svegliando, muovendosi ognuna a suo piacimento in ambiente ideale. Il mare era poco lontano, calmo azzurrino invitante. Sostò presso una fonte di acqua freschissima, là dove la strada si biforca per Pizzo e per Vibo Marina, e bevve a sazietà spegnendo l’arsura di dentro; poi cacciò i piedi, uno alla volta, nella vasca lì presso e ve li tenne fino a che non sentì il fresco penetrargli nelle ossa. Ma non bastava. Il mare era lì con il suo richiamo, misterioso e infinito. Vi si diresse come un automa. La spiaggia era quasi deserta a quell’ora: due marinai stavano preparando gli ami con l’esca, seduti presso una barca; qualche altro si accingeva a tirar su le reti che aveva gettato la sera innanzi. Giunse al riparo di uno scoglio, lasciò il tamburo, si tolse di dosso a fatica quei pochi stracci che gli si erano incollati per il sudore e si accoccolò per sfuggire alla vista altrui, incerto se fare il bagno in costume adamitico o mettersi attorno ai fianchi uno straccio.

Pensò che non ne valeva la pena e obbedì soltanto al desiderio prepotente di cacciarsi nell’acqua, di togliersi da dosso quel pizzicorino che il sudore gli procurava. Strisciò sulla sabbia fino alla battigia e pian piano s’immerse fino al collo, felice.

Ora egli si trovava nel suo elemento ideale. Preferiva essere cento volte un pesce che un uomo: di squame il corpo, oblunga la testa, e gli occhi, quegli occhi che lo torturavano con la loro miopia, grandi e sani, tali da esplorare fra gli scogli, negli anfratti marini, nelle sabbie popolate da una miriade di pesci sconosciuti.   Avvoltolarsi nelle acque, inabissarvisi, risalire a galla e fare a gara con i delfini, ecco il suo sogno! Ma egli era purtroppo un uomo!

Da tutti i preti con i quali aveva rapporti di affari, se così si può dire per via degli accordi che stipulava con essi per suonare il tamburo, aveva sentito dire che l’uomo è il re del creato, ch’egli è fatto ad immagine e somiglianza di Dio, la più bella e la più perfetta di tutte le creature viventi. Questa dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio lo incuriosiva e lo infastidiva nel contempo. Il suo corpo era deforme; ma ogni uomo aveva i propri difetti e nessuno si poteva dire veramente perfetto. Eppure Dio è perfezione e bellezza, è il massimo di ciò che la mente umana possa concepire. Possibile che l’uomo somigliasse a Dio? La somiglianza comportava la negazione degli attributi di Dio, l’impossibilità di pensarlo e concepirlo in modo difforme dalla conformazione fisica e mentale dell’uomo. O Dio era allora una sensazione puramente umana, una parte della fantasia, o doveva essere qualcosa del tutto diverso da come la mente umana lo concepiva, nella sua finitezza.

Per lui era tutto ciò che lo circondava, senza forma a sostanza determinata, ma assumente forme e sostanze diverse nel tempo e nel luogo: l’acqua, l’aria, il fuoco ed ogni altra cosa non voluta né creata dall’uomo.

Erano dubbi spontanei, semplici; maturati nelle lunghe ore di riposo appisolato sul sagrato di una chiesa o sull’aia di una casa colonica; ma dubbi che teneva dentro di sé, che ad esternarli non ci avrebbe guadagnato nulla, se non qualche rimbrotto dei suoi più buoni amici, di quelli che in fondo gli davan da vivere, i preti della contrada.

Sprofondò nell’acqua con dispetto, per quei pensieri che lo infastidivano; scese fino al fondo, raccolse una manciata di sabbia, se ne strofinò il ventre e il petto villoso, ripetendo più volte l’operazione, finché non sentì la pelle bruciargli. Prese una gran boccata d’aria e si confuse ancora con il liquido elemento: sentirsi circondato così, da ogni parte, dall’acqua, e muoversi più speditamente di quanto gli era possibile sulla terra, farne tanti di movimenti, strambi e veloci, che a ripeterli fuori di là significava rimetterci le ossa del collo; questo era davvero qualcosa di meraviglioso, che gli procurava una gioia infantile e lo esaltava.

Adesso se ne stava fermo con i piedi poggiati sul fondo; e sentiva il suo corpo tozzo e pesante, leggero come una piuma, pronto a spiccare il volo, se l’avesse voluto. Teneva la bocca aperta e le nari e gli occhi, ma non una goccia d’acqua vi penetrava, ch’egli non volesse. Eppure se si fosse attardato ancora un minuto, se una forza sconosciuta, quella stessa che lo teneva fermo al suolo, lo avesse costretto al fondo marino, il suo corpo non avrebbe resistito alla mancanza d’aria e l’acqua sarebbe entrata a fiotti come un torrente in piena nella sua gola e si sarebbe confusa con il suo sangue, per quanti sforzi facesse per evitarlo. Il suo sogno era vano. Egli doveva vivere e trascinarsi per terraferma; camminare e camminare, senza pinne e senza ali, per guadagnarsi un pezzo di pane, con i piedi gonfi e doloranti, inebetito dal caldo e dalla stanchezza, senza nessuna speranza, senza nessun punto di arrivo, di un domani meno triste.

Considerava che il morire era cosa facile, cosa di un attimo; e che il passare dalla vita alla morte non poteva arrecare fastidio, ingenerare paura. Era nella natura di ogni essere e di ogni cosa vivente il morire e a tale legge non era possibile sottrarsi. Anche Cristo era morto sulla croce; Egli che si considerava il figliolo di Dio. Solo Cristo poteva essere immagine di Dio, godere degli stessi attributi. Identificandosi con Dio, Egli doveva essere necessariamente eterno e infinito come il Padre, le forze del male non potevano avere alcun potere sulla sua natura divina. Eppure Cristo era morto: apostolo convinto di una dottrina che mirava alla bontà, all’amore, all’eguaglianza fra gli uomini; ma era morto. Ad un certo istante il sangue aveva cessato di scorrere nelle sue vene, l’occhio si era spento, la natura aveva continuato il suo corso con le sue leggi ferree e immutabili.

Giunse alla conclusione che vivere era veramente difficile, che la vita era soltanto lotta senza soste, dove conseguiva l’effimera vittoria soltanto il più forte e il più spregiudicato. Come aveva potuto il Cristo predicare l’amore in un mondo dilaniato dalla lotta, da dove aveva tratto tanta generosa convinzione di redimere il genere umano, se non dalla profonda intima persuasione che il sacrificio di uno sarebbe giovato a tutti? La fede non conosce ostacoli; abbatte e schianta tutto, come l’uragano quel che incontra sul suo cammino. Virtù sublime dell’uomo, essa è cieca nel suo furore santo ed eroico. Cristo era sorretto da questa fede; della stessa fede era sorretto Maometto, quando incitava i suoi contro i nemici del Corano. Lì un martire, qui un eroe. Ma in nulla differenti. A chi credeva in Cristo era ridata la vista e le piaghe si chiudevano; ma quelli che in non credevano erano nemici di Dio?

Questi suoi pensieri, questi suoi dubbi, - si diceva intanto – non erano conformi alla sua natura di cristiano e di cattolico; era male spingersi a tali considerazioni, certamente ciò sarebbe dispiaciuto a Dio. Ma egli amava l’umanità di un amore sincero e spontaneo; sarebbe stato felice di fare del bene, senza nessuna speranza di ottenere un premio nella vita futura. Amava naturalmente, come può amare una madre il suo bimbo. Non vi può essere amore concepito a grado più alto. E tuttavia la Fede era in contraddizione con questo amore che lo legava a tutte le altre creature, perché egli avrebbe dovuto amare soltanto e soprattutto gli uomini della sua stessa fede, e non avrebbe potuto amare con ugual amore i nemici di Dio, perché i nemici di Dio dovevano essere suoi nemici. La fede negava l’amore!

Lo prese un brivido, un senso d’insofferenza; gli sembrò di essersi cacciato in una vegetazione intricata dalla quale non sapeva districarsi, che lo stringeva ai malleoli, alle braccia, alla gola. Ed era solo l’acqua, quell’azzurra distesa ch’era la sua gioia, a serrarlo d’ogni parte, protettice e nemica nel contempo, lusingatrice e perfida come tutte le tentazioni di questo mondo.

Il sole brillava già alto nel cielo ad oriente e le acque avevano acquistato un color vivo di madreperla venata d’azzurro; d’intorno scogli e più lontano scogli ancora, a perdita d’occhio, verdi di limo, anneriti dal sole, gialli e stillanti, come le rocce millenarie che scendevano a picco sul mare. E da essi, da tutti, si sprigionava un profumo dolce e violento, come il vento lo portava, che sapeva di vegetazione sconosciuta e rigogliosa, le radici affondate nel sasso, nella sabbia, nel limo, di vegetazione in disfacimento sballottata dalle onde, trascinata dal risucchio, sminuzzata dagli urti.

Corse sulla sabbia bianca e tiepida e vi si avvoltolò, cucendosi attorno al petto, ai fianchi; all’addome, alle gambe, un curioso vestito di granelli che si diradava man mano che la pelle si asciugava al contatto. Gli sembrò così di aver sottratto la sua nudità ad ogni sguardo indiscreto, di aver assunto una forma nuova e vaga, più di tritone che pesce, più di pesce che d’uomo.

A vederlo così, una pia donna sarebbe corsa via urlando e segnandosi a più riprese, come per sfuggire il demonio; i ragazzi gli avrebbero fatta la baia e gli avrebbero portati via i vestiti per dispetto. Non v’era nessuno attorno, ma ebbe egli stesso vergogna della sua nudità, timore che l’aria, l’acqua, il sole avessero occhi per vedere e voce per rimproverare. Raccattò i suoi panni e li indossò alla svelta, senza darsi pena per togliersi da dosso la sabbia che vi era rimasta attaccata.

Desiderava portare con sé qualcosa di cui non doveva rendere conto ad alcuno; era un prendere senza recar danno, una ribellione forse contro la sua natura mansueta e rifuggente dal male.

Si mise per la strada maestra, per tornare a casa prima che il sole lo accecasse con il suo riverbero e il sudore gli incollasse di nuovo alla pelle quei miseri stracci. Doveva percorrere tre miglia circa, per una strada tutta a saliscendi, lungo la quale occhieggiavano dagli alti gelsi le more, grosse e mature. Si fece sotto l’albero, scosse qualche ramo e una pioggia di frutti gli cadde attorno, lo colpì sulle spalle e sulle braccia. I suoi stracci e la sua barba si tinsero di rosso sanguigno e, a mano a mano che raccoglieva le more da terra, di sangue sembravano sporche le sue mani e il suo viso. Provava una gioia infantile, un desiderio sadico di imbrattarsi di quel succo che non era sangue, ma di cui aveva tutta la somiglianza.

Provò a pensare che fosse il suo sangue, sparso come quello di Cristo solo per cattiveria. Le sue mani e i suoi piedi non erano forati, la sua fronte e il suo capo non martoriati da corone di spine; eppure sentiva il morboso desiderio di un dolore fisico, di qualcosa che desse consistenza al suo pensiero, che lo trascinasse inconsapevolmente verso una realtà frutto della sola fantasia. Desiderando il dolore, Cristo non aveva sofferto; perché in fondo si realizzava un suo desiderio non espresso, ma sempre presente nel suo cuore: quello di riscattare con il suo sangue l’umanità dal peccato e dalla perdizione. Un sorriso aleggiava sul volto di Cristo crocifisso e le parole di commiserazione per gli uomini, succubi del male, altro non esprimevano che il trionfo della sua idea e della sua fede.

Ma egli non aveva nulla da trionfare; perché la bontà che gli era connaturata, la dolcezza del suo sguardo quasi spento, il desiderio di essere qualcosa di diverso dall’uomo in ogni sua manifestazione, erano cose che non potevano essere insegnate, né suggerite dall’esempio. Egli stesso avvertiva che l’esempio dato dal Cristo morente veniva da lui pariodato con una macabra mascherata, non intonata a scherno o a irriverenza, ma lontana, come dalle tenebre alla luce, dal minimo accostamento con il sacrificio supremo del Redentore degli uomini.

In un lampo la sua mente corse ai mille e mille che di quel sacrificio erano divenuti i corifei, e gli apparvero più di lui macabramente mascherati, anche se raccolti in paludamenti ieratici.

E li trovò spregevoli e vili, perché, quanti ne aveva conosciuti, molti erano presi solo dalla passione del guadagno e dal desiderio di lavorar poco mietendo molto, pochi erano veramente pii e caritatevoli, ma nessuno di essi, nemmeno uno, avrebbe avuto il coraggio di affrontare il sacrificio del proprio Maestro per il trionfo degli umili e degli onesti.

Solo Cristo sapeva parlare agli innocenti con il sorriso sulle labbra, e ai potenti con il disprezzo di cui le loro colpe e le loro scelleratezze eran degne. I suoi corifei avevano presto dimenticato il sorriso dei pargoli e si erano troppo palesemente legati o asserviti ai potenti, da sperare che per essi la giustizia, la bontà e la fratellanza avessero mai più il sopravvento.

E si imbrattò di più il volto e le mani, si trasformò in un’orrida maschera di sangue, sulla quale galleggiavano in fondo, come due limpidi opali, i suoi dolci occhi celesti.

Così conciato, sotto il sole cocente, giunse in mezzo ai suoi compaesani e per farsi maggiormente notare diede di piglio alle mazzole menando gran colpi sul tamburo che li ripercuoteva in un ritmo assordante. Un nugolo di bimbi gli si fece intorno e lo accompagnò trionfalmente verso casa. Sedette sul primo gradino della catapecchia, vinto dallo sforzo e dalla stanchezza, e ai suoi piccoli amici, che gli stavano attorno divertiti e confusi, disse che non avessero alcun timore, che non era sangue quello che gli sporcava il volto e le mani, che non si era azzuffato con alcuno da essere ridotto in quel modo, ma che solo la sua smodata golosità lo aveva punito, tanto da fargli perdere il controllo di quel che faceva.

Disse altre ose a quei piccoli che ora gli si stringevano attorno sempre più attenti, cose senza connessione fra loro forse, ma che traevano origine da un’idea costante e predominante: che l’esser golosi è un male e arreca un male fisico, ma che più male è l’essere avidi di ricchezze, perché per conseguirle l’uomo non esita dinanzi a nulla e si fa spergiuro e traditore; che Giuda fece la fine che meritava, perché aveva guadagnato in tal modo; che anche egli, che si era guadagnato onestamente qualche manciata di spiccioli  suonando, sentiva che gli arrecavano fastidio con il loro peso e che erano più di quanto gli necessitava; che avrebbe donato volentieri qualche moneta a qualcuno di loro che sapeva a casa ne avessero veramente bisogno; chiamò per cenno molti fra essi di cui conosceva le necessità familiari e, per quanto certuni lo facessero con riluttanza, li persuase con un bonario sorriso e nei modi, a prenderli, perché egli ne aveva tanti tanti!

Poi piano piano si appisolò; e le mani gli caddero lungo i fianchi, in quella strana positura di angelo di Luca della Robbia, nuovo nell’aspetto satanico che il volto gli conferiva, fatto nero da rosso, una volta che il succo delle more vi si era disseccato.

I ragazzi si allontanarono silenziosi per non svegliarlo, e quelli che ancora stringevano nel pugno le sue monetine, corsero a casa felici.

Poco dopo passò di là, come spesso soleva, don Peppino il canonico e , visto il papparo in quelle condizioni gli voleva dir vergogna e che non era bello ubriacarsi di mattino; ma, come la stradicciola era deserta e la sua bella l’attendeva in casa a non più di venti metri, si segnò e accelerò il passo per non essere visto.

Fedor Nicolay Smejerlink