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La galleria degli antenati

La galleria degli antenati

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-         Menico ... Menico! dove ti sei cacciato, figlio di un cane!

La voce del marchese di Sterri risonò aspra e ansiosa nel vasto cortile del palazzotto signorile, stretto tutt’attorno dalle basse casupole dei suoi fittavoli, delle persone di servizio, dei braccianti, tutti più o meno suoi dipendenti, di cui l’ultimo erede del casato D’Arrigò soleva ripetere che vivevano felici alle sue spalle.

La testa di Menico spuntò cespugliosa nel vano di una porta buia, apertasi senza il minimo cigolio; nell’ombra della sera calata da poco il giovine sbirciò verso l’alto, rimase indeciso, seccato di dover lasciare a metà il piacevole passatempo al quale si era abbandonato da qualche minuto, speranzoso che il marchese si ritirasse, che di null’altro avesse bisogno che di far le solite quattro chiacchiere per essere messo al corrente, senza darlo a capire, di quanto avveniva nel borgo, tutto di sua proprietà, e che si compiaceva di chiamare il suo feudo.

Ma la voce del marchese risuonò nuovamente imperiosa, e al primo fece seguito un epiteto meno benevolo.

Menico sgattaiolò fuor dall’uscio, che si richiuse silenzioso alle sue spalle, strisciò lungo i muri in ombra, avanzò di corsa nel mezzo del cortile, si pose le mani a cavo sulla bocca e in modo stentoreo: - Eccomi, volo da Vossignoria, signor Marchese!

Saltò a quattro a quattro i gradini dell’ampia scala e in pochi attimi gli fu di fronte a testa bassa.

-         Sempre a perder tempo dietro alle gonnelle, immagino; prima o poi te la prenderai qualche schioppettata e se non l’hanno ancora fatto la colpa è un po’ mia ... dicono che io ti protegga; ma io la schiena ti rompo ...

-         Vossignoria sa che a quest’ora provvedo alle mangiatoie e alle lettiere dei cavalli ...

-         Alle lettiere delle cavalle provvedi, furfante! Ma ne riparleremo ... adesso corri, svelto, come se andassi a nozze e conduci qui il Catricalà; non perdere un minuto, spicciati.

-         Che se ne fa Vossignoria di Catricalà a quest’ora? Non si reggerà nemmeno sulle gambe, sarà più pieno di una spugna, quell’ubriacone ...

-         Chiudi il becco e fa come ti dico; dovessi portarlo anche di peso, non importa ... Donna Lidia sta male ... ho paura che ci siamo ...

-         La signora Marchesa ... mamma mia! ...

Menico voleva aggiungere ancora qualcosa, ma la voce gli si mozzò in gola. Si riprese subito e ...

-         Non si preoccupi, Vossignoria, saremo qui più presto di quanto non creda ... gliela farò passare, gliela farò passare io la sbornia al signor dottore se per sua disgrazia ne ha preso una delle sue anche stasera!

Il marchese Roberto ebbe appena il tempo di gridargli dietro che, passando dalla canonica, desse una voce a don Pietro che venisse su, a palazzo, che Menico era già nel cortile e caracollava per le strette viuzze del borgo come un puledro brado.

-         Catricalà, Catricalà, medico del malanno, - urlava a squarciagola, - dove ti sei cacciato! – e intanto filava diritto verso la cantina dello Scuticchio, l’unica del borgo, come verso una meta sicura.

Alcune donne si erano fatte agli usci e avevano appena il tempo di domandare a Menico cosa stesse succedendo che già egli, con un tono di voce appena più basso, ma gridandolo ugualmente, le informava che la signora marchesa, donna Lidia, stava per fare finalmente il proprio dovere, quello di dare il nuovo erede a don Roberto; - e speriamo sia maschio – aggiungeva – così la festa durerà un pezzo! – e non si dimenticava nel suo entusiasmo di raccomandare alle donne da fare una corsa fino in chiesa e di informare don Pietro, che corresse a palazzo con tutto il necessario.

Cosa fosse poi il necessario, non si sarebbe mai riuscito a sapere, se ad una delle comari più premurose che gli aveva chiesto cosa c’entrasse il parroco nella faccenda, egli non avesse risposto, ingiuriandola: - il necessario per il battesimo, iettatrice! – e alle parole faceva seguire per lungo tratto gli scongiuri triviali ai quali era uso, tanto da costringere le donne del borgo, non troppo pie né troppo timorate, a segnarsi a più riprese per darsi un contegno.

Menico piombò nella cantina dello Scuticchio mentre il medico, in buona compagnia e sorreggendosi a malapena sulle esili gambe e su un bastoncello di bambù, che per abitudine si portava dietro tutte le ore del giorno, ma che di notte gli era indispensabile per riprendere la via di casa, stava brindando per la ventesima volta alla bontà delle uve dell’Etna, che, nei suoi discorsi via via più nebulosi, avevano il meraviglioso potere di trasfondere nelle vene il fuoco di cui si erano impregnate; affermava deciso che nessun farmaco era pari a quel vino ineguagliabile e che, nella loro infinita balordaggine, gli uomini si imbottivano di intrugli e di medicine dannose solamente all’organismo, laddove un bicchiere di quel nettare avrebbe fatto resuscitare un morto.

Declamava proprio allora un passo del “Ciclope”, il doloroso sforzo di Sileno e dei Satiri rimpiangenti i tempi felici, in cui ebbri accompagnavano nelle sue scorribande Bacco “ a le case d’Altea molli danzando”, quando Menico gli fu addosso e afferratolo per un braccio tentò di trarselo dietro.

-         Muoviti, medico perdigiorno, che storie vai raccontando! Non so a che cosa tu possa essere utile, conciato come sei, ma il signor Marchese ti vuole subito. Più tempo perderemo, peggio sarà per te!

-         Giù le zampe! – protestò Catricalà, riuscendo a liberarsi con uno strattone dalle presa di Menico e puntandogli al petto, non senza oscillare paurosamente nella ricerca di un nuovo equilibrio, il suo bastoncello di bambù. – Per il signor marchese verrò subito, ma senza che tu mi debba insegnare la strada!

-         Su quelle gambe arriveresti domattina, quando donna Lidia avrà partorito in tutta tranquillità, e augurati che così avvenga, per la tua salute!

-         Eh! donne, donne ... sempre inopportune ... ne ha avuto anche lei, donna Lidia, tempo in cinque anni di matrimonio ... non si può bere un goccio in pace ... eppoi dici bene tu, non sei uno sguattero sciocco, che verrei a farci io ... se la sbriga così bene la mammana ...proprio che il diavolo non ci metta le corna ... va, va, dì al tuo padrone che ne bevo ancora un sorso e vengo; non se ne libererà così presto le signora marchesa, avrà ben da tirarne calci, prima!

Menico capì che la cosa rischiava di volgere al comico e che con le buone maniere non ce l’avrebbe fatta, tanto meno con i ragionamenti. Senza dir parola, si curvò in avanti, sollevò il medico come se si fosse trattato di un ragazzetto e se lo incollò sulle spalle tenendolo saldo per le gambe e lasciando che con il resto si dimenasse a suo piacimento. E via di corsa.

-         Lasciami, scellerato! – strillava intanto Catricalà, cercando di menar botte con il suo bastoncello che, pur colto di sorpresa, non aveva abbandonato. – Fammi scendere, cane, cane cane servo che altro non sei.

-         Vomita, vomita pure, ubriacone, e non solo parole; rigetta tutto il vino di cui ti sei riempito e ti farà bene, ti tornerà il senno. – Lo scherniva di contro Menico senza soffermarsi un istante per prendere fiato.

Il borgo si andava animando; le donne erano uscite nelle viuzze e si dirigevano chiacchierando verso palazzo D’Arrigò, copertesi le teste di neri scialli e tenendo fra le mani le corone di rosario, pronto a recitare le preghiere più indicate per un parto felice.

Si può immaginare perciò se il passaggio di Menico che si portava a bisdosso, per così dire, il povero Catricalà, potesse passare inosservato! Gli insulti che si lanciavano a vicenda erano ormai coperti dai lazzi e dai fischi dei ragazzi che seguivano Menico nella sua corsa disordinata, contenti che potesse durare ancora a lungo, per loro diletto.

Ma, appena nel cortile del palazzo padronale, gli schiamazzi cessarono e ad essi successe un brusio e un’attesa curiosa.

Menico depose il suo fardello ai piedi del marchese Roberto quasi nello stesso istante in cui don Pietro montava faticosamente l’ultimo scalino, tirandosi su con la sinistra la veste per non inciampare e toccandosi con l’indice e il medio della destra la falda del cappello in segno di rispettoso saluto e strascicando in latino un “ pace in questa casa” che per l’affanno non voleva uscirgli dal petto.

-         Ecco una bella combinazione! – esclamò soddisfatto il marchese – il nostro dottore e il nostro caro parroco che giungono assieme! Ve ne sono grato e vi ringrazio per la vostra sollecitudine ...

-         Che dite mai – lo interruppe Catricalà, non potendosene trattenere – sono io che vi debbo ringraziare per il percorso ... in berlina!

-         Non badateci, dottore – fece il marchese, come chi ha fretta di passare ad argomento più interessante – non ha niente di buonsenso, questo satanasso. Ne combina sempre qualcuna delle sue ... ma avrà quel che merita – aggiunse, acchiappando il ciuffo di Menico e scuotendolo senza fargli alcun male, come era uso fare con la criniera di qualche cavallo esuberante.

*     *     *

-         E’ maschio, è maschio! – Gridò Menico precipitando nel cortile ed agitando braccia e berretta in una frenetica allegria che si diffuse come scintilla fra le poche centinaia di persone costituenti la popolazione del borgo, lì radunate da qualche ora ormai, in attesa che il lieto evento si verificasse.

-         Vino e da mangiare a volontà domani alla salute del marchesino – continuò Menico, mentre il tripudio cresceva e le donne, messi da parte i rosari che fino allora avevano tormentato fra le mani per non addormentarsi, si stringevano a chi capitava, comari compari conoscenti, e subito si scioglievano da uno per passare ad un abbraccio successivo. Se era festa, doveva essere festa per tutti, una volta tanto, senza andare troppo per il sottile!

Il marchese Roberto comparve di lì a poco nel vano illuminato del balcone centrale della sua dimora; ringraziò tutti con ampi gesti delle mani e, come si fece silenzio, li pregò di tornare alle loro case, in quanto donna Lidia ora aveva bisogno di riposo; promise infine pranzi e balli per i giorni successivi.

-         E ora andiamo ad ossequiare il birbantello – continuò, accostando le imposte e prendendo sotto braccio don Pietro, che per tutto quel tempo gli aveva tenuto compagnia, seguendolo per come poteva nel suo andirivieni impaziente da una stanza all’altra.

Catricalà, dopo aver brontolato per qualche minuto ancora contro tutti i servi premurosi e furfanti di questo mondo, era stato colto, su una panca, dal sonno del giusto e ora russava senza risparmio, agitando di tanto in tanto il bastoncello che teneva stretto nel pugno, come avesse ancora a che fare con Menico.

-         Non è cosa urgente, ma stavo pensando al nome, reverendo. Non credete che sia più giusto ricordare uno degli avi che abbia tenuto più alto il prestigio della nostra casata?

-         Il nome del vostro eccellentissimo padre, mi permetto di suggerire. E’ un po’ anche attenersi alle tradizioni ...

-         Già ... già; un uomo d’ingegno, una tempra di studioso, mio padre. Ma le lettere non vanno più di moda, don Pietro; a dirla francamente, mi sembrano scadute da un pezzo ... un saggio si trova a malpartito in un mondo frenetico come quello d’oggi. Ci vuole fantasia e coraggio... una certa iattanza... il mio bisavolo, don Riccardo D’Arrigò, le cronache garibaldine ne parlano come di un valoroso, di un temerario...

-         Caro Marchese, gli eroi sono pure essi roba da museo, ormai! Chi volete che li prenda sul serio? ... ma, vostro nonno, un dottore valorosissimo, una scienza nel campo medico... un nome da ricordare, Giovanni D’Arrigò...

-         Ecco a qual punto si è ridotta la scienza! – l’interruppe il marchese, accennando con il braccio teso a Catricalà, che sobbalzò in quel momento nel sonno, quasi il dito puntato su lui lo avesse colpito allo stomaco. – Ebbene, affidiamoci un po’ alla sorte; andiamo di là, nella galleria dei miei antenati. Porterà il nome di quello cui somiglia maggiormente... Venite, venite reverendo; in due faremo presto a stabilirlo.

Battè una contro l’altra le palme e apparvero premurose alcune donne di casa.

-         Portatemi il giovanotto – ordina don Roberto – è tempo che facciamo la reciproca conoscenza, ormai; badate che sia ben coperto, perché dovremo fare una lunga passeggiata.

Le donne, per quanto sorprese, corsero subito e una di esse tornò di lì a poco, portando il neonato ben avvolto in una coperta di lana.

Don Roberto se lo prese tra le braccia e si avviò, seguito dal parroco, verso la galleria, della quale accese tutte le luci per osservare a suo agio i ritratti.

-         Porta i capelli crespi e un bel ciuffetto il birbante – fece il marchese, passando ad osservarlo attentamente in viso alla ricerca di qualche particolare che gli potesse ricordare qualcuno degli antenati.

La galleria era un vanto di famiglia e a don Roberto i loro volti erano ormai più familiari di quelli delle persone con le quali aveva a che fare quotidianamente. Ma così, a occhio e croce, il viso e l’espressione del bambinello non gli richiamarono nulla alla memoria!

-         Orsù, don Pietro, aiutatemi nella ricerca. Vediamo un po’...mio padre, il nonno...no, andiamo avanti... il bisnonno, Roberto D’Arrigò, bruno, buon sangue siciliano come questo marmocchio, ma nient’altro... don Riccardo, che sguardo, che uomo! con Garibaldi erano come fratelli... avevano l’Italia nel sangue...già...chi fa e chi disfà...

Percorsero in lungo, in su e in giù tutta la galleria e don Roberto, dopo aver magnificato per un buon tratto la memoria di questo e di quell’avo, si era fatto taciturno e osservava attentamente i loro volti velati di polvere che incominciavano a mettergli in corpo una certa insofferenza e un senso di irritazione insieme. Si fermò infine dinanzi all’ultimo dipinto, quello del capostipite.

-         Avesse almeno qualche somiglianza con lui, don Carlo D’Arrigò, celebrato alla corte di re Federico come giureconsulto e grande uomo politico...

-         Otto secoli, don Roberto, ci sono otto secoli di mezzo, azzardò don Pietro.

-         Otto secoli o un giorno è lo stesso, il sangue è il sangue, - e la voce gli si alterò – eppure c’è qualcosa nel suo viso che non riesco a cogliere...percorriamo di nuovo la galleria, reverendo... tenetelo voi il pupo, voglio essere più a mio agio, osservar meglio – e così dicendo il marchese lo depose nelle braccia che il parroco aveva teso meccanicamente.

Rifecero assieme una parte della galleria e dinanzi ad ogni ritratto don Roberto diveniva più nervoso, storceva la bocca, come gli fosse capitato di ingoiare una medicina disgustosa.

Don Pietro, vecchio e spossato, non ce la faceva più; si trascinava dietro al marchese osservando di tanto in tanto il piccolo e gettando occhiate oblique su quei volti impassibili di cartapesta, nessuno dei quali gli veniva in soccorso. Ma qualcosa doveva pur dire per rompere il silenzio divenuto insopportabile.

-         Si potesse dare uno sguardo anche alla galleria della signora Marchesa...

-         Ma che galleria della signora marchesa mi tirate fuori! – lo interruppe don Roberto accigliato – mi pare di avervelo detto più d’una volta che il suo palazzo andò completamente distrutto sotto i bombardamenti del ’43, quando donna Lidia era ancora una bambina...

-         Ricordo, ricordo; ma che volete, sono stanco e vecchio... questa creatura comincerà ad aver freddo... domani, alla luce del sole, sarà più semplice...

Ma il signor marchese stava per perdere le staffe.

-         Basta, so io quello che conviene... passeremo qui tutta la notte, se mi garba... ho da trovare...questo no... questo ancora no...e no... accostatevi, non abbiate timore... fatemelo guardare meglio in faccia... e guardate anche voi, invece di starvene lì allocchito; bella mano mi date!

-         Per amor del cielo, signor Marchese, non è il caso di tormentarsi per nulla... dovreste essere felice... a chi volete che assomigli una creatura di Dio appena nata... esse hanno un po’ tutte la stessa impronta...

-         Don Pietro, non dimenticate! Questo vale anche per la mia casata, per i D’Arrigò! ... c’è stato sempre qualcosa di nobile sul loro volto...

-         Signore benedetto...

-         Date, date qui il pupo; andate don Pietro! Non è il tempo di preghiere, questo. Verremo in chiesa, quando ne sentiremo il bisogno... – e così dicendo il marchese glielo tolse con mala grazia dalle mani e proseguì da solo nell’indagine.

Don Pietro rimase ancora qualche minuto lì, fermo nel mezzo della galleria, avvilito, senza sapere che pesci prendere, e mandando in cuor suo tutti gli accidenti possibili agli antenati del signor marchese.

Poi si avviò, misurando i passi e senza il minimo rumore, verso l’uscita, mormorando: - pace... pace in questa casa, perché ce n’è bisogno –

Nel vestibolo si scontrò quasi con Menico, che era lì in attesa, con la berretta in mano.

-         Che faccia, reverendo! Che vi capita? per poco non mi venivate addosso... allora, lo battezziamo, il signor marchesino?

Don Pietro lo guardò fisso nel volto, quasi lo vedesse per la prima volta, rimase attonito come preso da un incubo.

-         Che vi succede, reverendo? ...su, su, coraggio! ...ma voi state male!

Don Pietro fece cenno di no, con il capo, con le mani lo spinse verso la porta: “ Vattene, vattene con Dio e ... metti molto spazio fra te e questa casa!

Catricalà si svegliava in quel momento, doveva aver smaltito la sbornia e le ossa incominciavano a fargli male. Intravide Menico, balzò in piedi di scatto e roteando il suo bastoncello di bambù: “ adesso avrai quel che ti meriti, canaglia!”  

 

 

Fedor Nicolay Smejerlink