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L'accalappia-cani

L'accalappia-cani

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Accalappia cani era; non pretendevano per caso che insegnasse loro il latino, quei malcreati. Ma l'educazione ...

gliel'avrebbe potuta insegnare, quella almeno sì, dal momento che non sapevano farlo i padri loro, alcuni dei quali si vantavano di aver frequentato l'Università, quella di Napoli, niente di meno! Si vede che a frequentarla avevan guadagnato poco; eppoi egli era del parere che l'educazione non la si fa andando a scuola, ma esser di buona pasta bisogna. Quelli, di mala pasta erano; ma non loro soltanto, anche i padri, i nonni, tutti quelli che usavan dire "ai miei tempi" e

pensavano di aver compiuto la loro opera di educatori! Come se non li ricordasse pure lui quei tempi: sempre gli stessi!

Don Saverio Manchi, quello con tanto di baffi, ricco a iosa, che ora bastona il figlio Pasquale perché non vuole andare a scuola e gli urla dietro quando non gli riesce di afferrarlo: "figlio di un cane! ai miei tempi!";  se lo ricorda lui quando don Saverio era piccolo e andavano a scuola assieme, alle elementari, ché più in là Nardo non era andato, quando lo faceva abbassare sotto il banco con una scusa qualunque e furbo furbo gli strizzava l'occhio e gli mostrava le cosce della maestra Cecilia, bianche come l'alabastro, e la povera maestra Cecilia, ventidue anni allora; un'ingenua, a domandargli quel che aveva perduto e che si alzasse da sotto il banco che si sarebbe sporcato il vestitino nuovo! Giene importava assai a don Saverio del vestitino in quel momento; e lui, mammalucco, che non capiva nulla, che non sapeva il perché di quegli inviti e di quelle strizzatine! Al padre gliele darebbe due ceffoni quando quel vigliacco di Pasqualino Manchi gliene combina una più grossa dell'altra! Ma è una parola: vallo a toccare don Saverio, che se non può lui con quelle due manacce, ti manda contro con i suoi milioni mezzo circondario e ti può preparare di sicuro la cassa o contrattare con il becchino per la vendita della carcassa! Brutto é; e di statura è più sei che sette palmi; ma lo sa ben ch'è brutto e che per la statura non lo vollero soldato e gli dissero che era più corto ancor del re, che è quanto dire! C'è proprio bisogno di ricordarglielo? non basta il nomignolo che gli han dato, meritatissimo magari, ma non certo da far contenti: "Nardo il nano". Gli han già dimezzato il nome: Leonardo lo chiamavano da piccolo; i suoi genitori ed anche i compagni lo chiamavano così. Poi crescendo, non proprio Leonardone, ché non ci teneva, ma avrebbero potuto continuare a chiamarlo con il suo nome. Invece tutto all'incontrario degli altri: Ciccillo è diventato Franco, Lino don Pasquale, Boby non sa più cosa è diventato, e lui invece fa come il gambero, va all'indietro: Leonardo? Niente, Nardo! A quel pensiero si dimenava tutto come il serpe quando si è sentito portar via metà del suo corpo con una buona randellata. Ma dopo vi ragionava su; se l'avevano dimezzato, la colpa era anche un po' sua, che si era fermato a mezza strada e di allungare non aveva voluto saperne. Ma brutto, corto, accalappia-cani e peggio: in fin dei conti era sua la colpa se madre natura lo aveva fatto così? A pensarci un tantino non era stata madre natura a farlo accalappia-cani, ma un mestiere doveva pur sceglierlo se non avesse voluto morire di fame. Certo non poteva andare a fare il facchino al porto, ché sarebbe stato seppellito sotto il primo sacco di cemento che gli avessero messo addosso, né a tirar le reti, ché lì ci volevano muscoli di acciaio e occhi buoni. Ad accalappiare i cani invece si era provato con successo e aveva suscitato l'ammirazione del suo predecessore, il Butto, che prima di morire aveva messo una buona parola con il sindaco. Il Butto era una personalità, in un certo senso, si capisce, perché con i suoi due metri di statura e uno e mezzo di torace non c'era alcuno che non lo rispettasse e rispettare si faceva, se a qualcuno fosse venuta la malaugurata idea di fargli la baia quando era al lavoro. Ma dei predecessori non ci si può far scudo, come non se ne fece di Lorenzo Lorenzino. S'era provato una volta Totò Stillitano, il più discolo monello del paese, a sghignazzare dietro al Butto e a far bau bau, facendogli scappare la preda: e quello aveva acchiappato lui, l'aveva sollevato di peso con una mano, tenendolo penzoloni nel vuoto del fossato per cinque minuti buoni; infine gli aveva assestato un gran calcio nel sedere e un sonoro manrovescio fra capo e collo da fargli passare una volta per tutte la voglia di sfottere chicchessia. Non che l'educazione sia segno di viltà e di paura, ma è certo che da quel giorno Totò divenne il più bravo ragazzo del paese! Ma a chi l'avrebbe potuta dar lui una lezione simile? Senza contare che ormai era troppo tardi! Avevano cominciato con le pernacchie e lui a fare orecchie di mercante, dello stesso parere del filosofo antico che le rane è meglio lasciarle gracidare: un bel giorno scoppieranno. Ma quelli altro che rane, serpenti erano e velenosi. Se non se ne dava per inteso, gli avrebbero fatto loro cambiare idea. E un bel giorno, bruttissimo per Nardo, mentre era intento, tutto mosse e mossettine, ad avvicinarsi ad un cane di campagna imbalordito dal caldo e con la coda fra le gambe, gli era piovuta addosso tal quantità di sterco di asino o cavallo che fosse, che non potette più far finta di niente, tanto nemmeno un santo avrebbe resistito e lasciati da parte cappio e cane si era mosso a correr dietro a quei manigoldi pronunciando minacce e bestemmie, nella speranza di farli desistere ed impaurirli una volta per sempre. Ma le gambe corte erano e a correr troppo non gliela faceva e per la stanchezza, la vista, già difettosa, gli si appannava. Non fece in tempo a pentirsi della sua decisione che una nuova gragnuola di quella tal porcheria lo colpiva in piena faccia, lasciandolo lì avvilito e confuso, mentre risate allegre scoppiavano intorno, e chi incitava i monelli ad insistere, come se ad incitarli fosse proprio necessario, chi diceva vergogna ed urlava al povero Nardo di prenderli a coltellate, quei figli di cane. E Nardo, come un automa, a tastarsi le tasche per cercare un coltello che non c'era mai stato e gli altri a dargli sempre addosso da debita distanza, un occhio alle munizioni e uno alle mani di Nardo, che non tirasse fuori quel tal coltellaccio con cui giurava li avrebbe fatti a pezzetti. Vuoi che un ragazzo non ti creda più? Digli una bugia; e siccome il coltello non venne fuori, da quel giorno Nardo divenne lo zimbello di tutti i ragazzi e, talvolta, anche degli uomini fatti, i quali approfittavano del buio per fare la loro parte. Si fossero fermati pur lì! Questo ormai tormentava il povero Nardo; ché ogni giorno, nemmeno a farlo apposta, una di nuova ne inventavano! A tali pensieri quel suo viso di mongolo butterato dal vaiolo, sul quale il sangue non aveva disegnato mai una traccia di roseo e di vita, diventava verde, quasi ogni volta una goccia di fiele vi scendesse nelle vene, rendendolo più brutto di quanto fosse. Ché brutto era e si rendeva ancor di più con il cappello calcato sugli occhi intravisti appena per il lampeggiare fosco delle pupille, con quel naso rincagnato al pari di un bulldog aizzato e la bocca tutta pieghe e grinze come deformata e cotta dalla lava. Gli abiti di certo li aveva ereditati dal Butto, tanto gli cascavan da tutte le parti e gli coprivano i piedi scalzi, le mani e il manico stesso del cappio. Nardo non faceva che bestemmiare il destino infame che lo aveva messo al mondo e che ancora ve lo teneva, facendo risalire ad esso la colpa di tutte le sue sventure. Non stava a ragionarci su con senno, ma alla buona, come i sentimenti di dentro e le inquietudini gli dettavano. Gli si erano accaniti contro madre natura ed il destino, questo soprattutto, diceva lui; perché sennò non gli sarebbero morti tanto presto padre e madre che ne avrebbero fatto certamente un maestro d'ascia e di sega, almeno non sarebbe rimasto il nano che era e don Leonardo, facendosi tanto di cappello, la gente lo avrebbe chiamato don Leonardo bello, magari con quella sua stessa faccia, perché quando ci sono i quattrini allora tutto il resto passa in seconda linea e i preti ti fanno andare in paradiso meglio di un santo. A martire lui era già arrivato senza un soldo, non per merito dei preti questa volta, ma di quegli altri bastardi, di quei nulla di buono, di quei perdigiorno ... si sarebbe messo a piangere per la rabbia, se non avesse avuto paura di sembrare più ridicolo! Queste cose ed altre, le diceva a sé stesso però e qualche volta a Parma, con la quale viveva già da qualche anno di comune accordo: lui accalappia cani, lei lavandaia con tanto di muscoli e tanto di lingua.
- Di sposare, però, non parlarmene - aveva premesso Parma - che non sarei così pazza da prendermi un coso come te con tanti che stanno lì ad aspettare un mio cenno; eppoi, io voglio essere libera, voglio fare i miei comodi senza che ci sia nessuno cui debba dar conto; se faccio o non faccio, se dico o non dico; non ho voglia di fare scenate io e brontoloni tra i piedi non ne sopporto.-
E Nardo aveva accettato subito, ad ogni condizione, non sembrandogli vero che alcuno potesse mai interessarsi di lui e felice in fondo di non sentirsi dare, in aggiunta, del becco, del cervo o chissà che razza di nomignoli a coronamento di quelle nozze. Avrebbe voluto rendere partecipe Parma della sua contentezza, ma quella non si reggeva dritta in piedi, tanto era briaca, quando lui a sera volle aprirle il suo cuore, e si sentì rispondere con alcuni formidabili rutti ed un'oscena risata che lo lasciarono avvilito e confuso. Un merito grande ai suoi occhi, però, Parma l'aveva, ed egli le era tanto riconoscente: era lei soltanto che in definitiva lo difendeva da quella canaglia, lei che veloce come una saetta correva ad acchiappare qualcuno che faceva la baia a Nardo e gliene dava tante sul sedere sino a stancarsi, sorda alle strida e alle minacce di ognuno, anzi pronta a sfidare padri, fratelli, tutta la parentela o la mala stirpe - come diceva - perché con lei avevano a che fare, non con quel disgraziato, con quel rincitrullito, con quel fesso di Nardo. Povera Parma, non lo faceva per male! pensava che a mettere in brutta mostra Nardo, avrebbe fatto spiccare molto di più le sue qualità e le sue capacità di difesa! Tale protezione è vero che costasse a Nardo tre quarti dei suoi guadagni, che finivano in contanti nella cantina di Scuticchio e in natura nello stomaco di Parma; ma anche l'altro quarto avrebbe dato volentieri, pur di vedere cessata quella persecuzione, pur di potersi alzare una mattina senza più quell'incubo nel petto e riprendere il lavoro con altra lena, con altra voglia, con gioia forse. Immaginava che persino quel brutto colore da lucertolone gli sarebbe scomparso dal viso e si sarebbe potuto specchiare anche lui come tuta la gente di questo mondo senza avere paura di se stesso. Poteva capitare però che, mentre era assortito in tali fantasticherie, pamfete, un ben aggiustato colpo di quella tal roba, lo portava dritto defilato alla realtà e non gli restava che ripassarsi per la centesima volta sulle gote le maniche di quel giacchettone che sapeva, assieme al suo padrone, di stalla lontano un miglio. Né lì c'era Parma pronta ad intervenire, con tanti panni che aveva da stendere al sole, né lui, per colpa di quella miopia aggravata e riconosciuta, sapeva con chi prendersela e ad abbaiare alle stelle, tanto lo sapeva, era inutile, anzi non avrebbe fatto che rinfoltire il capannello di quella gentaccia che con l'aria più innocente del mondo gli domandavano che diavolo gli fosse successo da prendersi una tale arrabbiatura, lui così calmo, lui così buono!

* * * 

Si sa come vanno a finire certe cose: dai, dai un bel giorno la bomba scoppia e a chi capita capita. Nardo per la verità un ordigno innocuo era, ma accumula oggi, accumula domani, si era riempito di bile a tal punto che prima o poi sarebbe saltato come una fabbrica di esplosivi. Naturalmente don Saverio Manchi era mille miglia lontano dal pensare che lo scoppio di Nardo avesse potuto tangerlo, mentre tutto preso da una partita a tressette nel caffé di Peppe Cuscinà si sgolava per far capire al compagno che bastoni avrebbe dovuto giocare e non denari:
-la legge t'ho fatto, cosa guardi, pezzo di salame? se ti scarto coppe e denari, bastoni voglio e non denari, che di denari ti subisso, rimbambito! -e accompagnava le frasi con gran pugni sul tavolo, richiamando l'attenzione del vecchio Peppe che si era alzato di malavoglia per andare a sedare quella discussione dannosa soprattutto per lui, ché, se vi riusciva, con quello sarebbero stati cinque tavoli che don Saverio gli sconquassava a forza di tirar pugni per far valere le sue ragioni. Quando, che è che non è, dapprima un urlio confuso, poi grida distinte si odono per la piazza, qualcuno si precipita nel caffé, fa cenni a don Saverio, che ha smesso di picchiar pugni e si è fatto bianco non sa nemmeno lui perché, gli dice di uscire, di far presto. E intanto da fuori: -chiamatelo, chiamate don Saverio, gli ammazzano il figlio! Getta da parte il tavolo, carte e sedie e si lancia fuori a testa bassa come un caprone pronto a scontrarsi con l'avversario, chiunque sia. Non avrebbe voluto credere ai suoi occhi don Saverio, non poteva assolutamente immaginare che qualcuno avesse osato tanto! Eppure era così: quello là attaccato al cappio come un cane rognoso, bavoso, era suo figlio, il suo Pasqualino! Avrebbe fatto a pezzi il mondo se l'avesse potuto! Figuriamoci cosa avrebbe fatto di Nardo, che come niente fosse, si tirava dietro con l'aria più naturale del mondo il suo ragazzo accalappiato, sordo alle preghiere, alle urla, agli insulti di quelli che gli stavano attorno più per vedere come sarebbe andata a finire e godersi lo spettacolo, che apportare un tangibile aiuto a Pasqualino: questo Nardo lo sapeva per esperienza, che delle disgrazie dei malcapitati si gode; ma in quel momento il malcapitato, una volta tanto, non era lui; lui era il trionfatore, il vendicatore di se stesso e qualunque cosa stesse per accadere, era sicuro che nessuno lo avrebbe toccato, anzi, se non gli davano apertamente ragione, se non gli dicevano: - bravo, dai, tira! - era perché; non se la sentivano di essere affrontati domani da don Saverio e sentirsi urlare in viso, per lo meno: - e tu, cane, gli davi ragione! -

Ecco don Saverio piombare come un bolide in mezzo alla folla, farsi largo come un elefante nella foresta, abbattendo e gettando da parte tutto quello che incontra sul suo passaggio; e persino i suoi occhi sono diventati rossi per la rabbia e dalla gola vengono fuori minacce incomprensibili. Dieci, venti mani si sforzano di trattenerlo; venti bocche cercano di calmarlo, di dirgli che non combini una pazzia, per l'anima dei suoi morti, che non ne vale la pena, che l';ammazza se lo tocca, quel sacco di cenci sporchi, che poi dovrebbe pagare per nuovo. E don Saverio a urlare, a pregare di liberarlo, per fare poltiglia di quel vigliacco che se la prende con dei poveri innocenti i quali non possono difendersi, che venga a farli a lui quegli scherzi, a do Saverio Manchi; e calca la voce su quel don e stringe i pugni e giura ch'è meglio per Nardo scomparire dalla faccia della terra. E come non può liberarsi, l'ira aumenta, gli gonfia le vene del collo e ad ogni esortazione di calma da parte degli amici che lo trattengono, è una nuova esplosione di minacce e di improperi: un'ira di Dio. Nardo sa con chi ha da fare: si farebbe più piccino se potesse, scomparirebbe dalla faccia della terra; intravede quelle due minacce pelose protese verso di lui e pensa che se vi capita in mezzo, farà la fine che fan le pulci tra le dita di Parma. Abbandona cappio, Pasqualino e terreno; cerca di darsela a gambe, sebbene premuto da ogni parte; s'intrufola fra le gambe di qualcuno, si calca ancor di più il berretto sugli occhi e corre lontano, il più lontano che gli permettono tutte le sue forze e correndo si volta indietro e digrigna i denti come un mastino cacciato, con quel suo muso cotto dalla lava e quei suoi occhi saturi di vendetta esprimono un solo sentimento: odio, odio feroce contro tutta l'umanità. Si getta spossato su un mucchio di immondizie, fuori dalla vista di ognuno, si passa la mano sulla faccia imbrattata di sterco di bue, la ritira con ribrezzo come se avesse toccato un viscido serpente, borbotta tra i denti: - merda di vacca! La merda di vacca hanno ora trovato! Se non gliela davo subito una lezione a quel discolo, anche quest'altra abitudine avrebbero preso! ... e il padre viene a difenderlo invece di dargli il resto per quel che ha fatto! Ma la darò anche a lui, a don Saverio Manchi, un giorno, qualche lezione! Se non gliela diede, fu perché Nardo di lì ad un'ora, pensandoci bene e con calma, stimò più conveniente per le sue ossa presentarsi al maresciallo dei carabinieri e con la faccia più contrita di questo mondo implorarlo: - Signor maresciallo mio, certo non vi capita tutti i giorni un'occasione come questa, di uno che ha fatto del male e si presenta a voi senza farvi tanto penare. La legge, il collo non lo tira a nessuno; ma se io vado a finire tra le mani di don Saverio Manchi, Dio mi liberi e San Francesco mi guardi, quello così mi stira, fino a quando non gli resti la mia testa in una mano e i piedi nell'altra - . E per convincerlo a chiuderlo in gattabuia: - Pensate poi al daffare che vi darebbe don Saverio per acchiapparlo, una volta che mi ha spaccato in due, così, come un passerotto! -.

* * *

- Alle Assise la voglio, alle Assise; a Catanzaro se non basta a Monteleone! A morte lo voglio vedere condannato! - così urlava don Saverio nello studio dell'avvocato Gullo alcuni giorni dopo il fattaccio. - Ma la pena di morte non esiste -  si provava ad opporre il Gullo, tanto per incominciare a smantellare una delle richieste più feroci di don Saverio e portare la causa sui giusti binari.  - non esiste? e noi ce la mettiamo! Impiccato lo voglio vedere, penzoloni al cappio, fino a che non avrà tirata tanta lingua di fuori, che per poco non mi strangolava Pasqualino. Sei insomma o no il mio avvocato? Ti ho detto che sono disposto a pagare tutto quel che occorre e tu dalli a mettere ostacoli per ogni dove! Non ti pago certo per difendere Nardo il nano, per caso!
- C'è che ... - C'è niente! Ci sono i miei soldi e quelli bastano. La legge chi la fa? se non te la senti, la faccio io; e anche giustizia mi faccio, con queste mani - e gliele metteva sotto il naso per fargliene prendere conoscenza. E Giorgio Gullo, che nella sua rigida onestà aveva sempre diviso giusto il torto e la ragione, perorando le sue tesi con quella brillante oratoria che lo aveva reso celebre nelle Calabrie e noto da un estremo all'altro d'Italia, dovette questa volta, per accontentare l'amico, limitarsi a dar ragione a Nardo in cuor suo, salvo a brigare e a cercar cavilli per portar la causa alle Assise di Catanzaro secondo i desideri imperiosi di don Saverio. Dell'onestà, si dice ch'è relativa, ma forse si è veramente generosi quando di un uomo, chiunque egli sia, si dice ch'è relativamente onesto. Ma onesto, perdio, egli lo era, don Saverio, non voleva che il trionfo della giustizia; - solo per la giustizia - si ostinava a recitare alle orecchie del Gullo, - per la giustizia lo devi fare, non per me che sono tuo amico; avrei voluto vedere se fosse stato tuo figlio al posto del mio, quali scrupoli avresti ora. Guarda qui, -e gli sfogliava un vecchio codice sotto gli occhi come se il Gullo dovesse prenderne, per la prima volta, conoscenza.
- Guarda qui cosa dice questo articolo; è chiaro no? è il caso di Pasqualino. L'ho letto tutto da cima a fondo questo libraccio. La pena di morte non c'è proprio; ma qui parla di lavori forzati a vita. Bah ! che lavori vuoi che ti faccia quel boia di un nano? La legge è stata sempre malfatta! Lavori forzati! Dar da mangiare fino a che crepa a un delinquente che produce poco o nulla! E, siamo giusti, cosa si deve pretendere che produca? Con quel che ha in corpo, altro che produrre pensa! E' lo stesso che allevare una cavalla ribelle ad ogni freno e che quando gli capiti a tiro, zac, ti sferra un calcio e ti manda dritto al Creatore. Tu, che sei un uomo di legge, queste cose le puoi far presenti: un tratto di corda, e al Creatore lui e tutta la sua razza, se gli somiglia; non condannarlo a non vedere più il sole, a diventare arido di cuore e di mente, a fare di un uomo una cosa senza valore. Io, Nardo, lo vorrei vedere mangiato dai cani e basta; pensare invece che debba star lì chiuso tutta la vita a mandarmi maledizioni su maledizioni, questo non lo sopporto. Uno muore? e non se ne parla più. Dopo un po'di tempo se lo dimenticano i parenti più cari e i nemici più acerrimi. Se qualcuno lo ricordasse ancora, dirà: poveretto! E tutto finisce lì. Invece c'è la legge, la giustizia! L'avrebbero fatta meglio gli scarpari, ché quelli sono a contatto con la pelle degli uomini e con quella delle bestie e sanno quanto son dure! Invece la si lascia fare a quei tipi che si son riempiti la testa di latino e di tante altre balle, e poi si mettono a predicare che la vita non si deve togliere all'uomo, perché è sacra, perché è un dono di Dio, perché non si deve uccidere, che bisogna redimere o che so io! Son dei teorici, non dei pratici della vita. Mastro Turi cosa fa? Gira, rigira tra le mani il pezzo di suola con occhio da conoscitore e se gli sembra buona ecco tirarne fuori una magnifica risuolatura; sennò lì al macero, se non serve. E gli uomini alla stessa tregua bisogna trattarli, con occhio esperto: è utile? serve alla società, da questa parte; è dannoso o nulla rende di buono? al macero, dall'altra.  Queste erano le idee di don Saverio in proposito; né il Gullo nè altri erano riusciti a levargliele dalla testa e fargli capire che lì, su due piedi, nonostante tutte le buone ragioni ch'egli aveva addotte, non era possibile ficcar la pena di morte nel codice se nessuno gliela aveva messa; tanto meno pensavano di adottarla su larga scala così come egli desiderava, sennò tre quarti dell'umanità correva il rischio di essere impiccata -; aveva soggiunto il Gullo. Ma don Saverio aveva insistito: - vedrai, vedrai che la metteranno; lascia che gli uomini diventino più intelligenti!
Naturalmente egli negava a priori la redenzione dell'umanità ed ammetteva che l'intelligenza umana si affina sulla via del male. Il che non era, molto, molto azzardato!
- Avete nulla da aggiungere in vostra discolpa? E il Presidente fece a Nardo la domanda di rito, prima che la Corte si ritirasse per emettere la propria sentenza. Testi non ne erano mancati: una caterva se n'era trascinati dietro don Saverio, tutti contro Nardo, si capisce. - Pago tutto io! - aveva promesso solennemente - mangiare, bere dormire; a Catanzaro vi faccio stare come tanti pascià, fino al termine della causa, ma mettiamoci bene d'accordo su quel che dovete dire.
E li aveva raccolti il giorno prima dell'inizio del processo per assegnare definitivamente le parti a ciascuno, come il maestro d'orchestra prima della grande prova. Poi era partito soddisfatto, beato, su una lussuosa automobile, abbandonato mollamente sui cuscini e per tutto il viaggio si era riempito gli occhi di quel paesaggio cangiante ogni minuto, or verde, or brullo ora arido e roccioso, or fiorente di viti e di ulivi, ora odorante di zagare e di resina, or di mentastro e di ginestra abbarbicati a colline di sabbia infeconde. 

- Io? fece Nardo, richiamato alla realtà da quella domanda che non si attendeva, la mente presa dall'assillo di capire perché in fondo tutta quella gente ce l'aveva con lui, dai giudici ai giurati ai testimoni al pubblico e ai due angeli custodi dritti impalati ai lati della gabbia con quell'aggeggio a tre corni in testa. C'era proprio bisogno di quell'apparato per lui! Giustificato lo sarebbe stato, se fosse servito a proteggerlo dalle grinfie di don Saverio! Un sorriso corse per le labbra di Nardo a quel pensiero e si alzò in piedi più fiducioso nella giustizia umana.
- Io? ripeté. Pallido, emaciato, ancor più piccolo di quanto in realtà non fosse, le spalle curve e la testa piegata in avanti, stringendo con le piccole mani le sbarre della gabbia, dalle quali si sentiva difeso e umiliato.  - Cosa volete che vi dica io, dopo tutto quello che han detto lor signori? Han detto che volevo ammazzarlo, il figlio di don Saverio, ma giuro che non è vero; vi giuro, signor Presidente che se avessi voluto mi sarebbe bastato tirare un tantino più forte, e la lingua di fuori, così avrebbe tirato! è vero Pasqualino? Diglielo tu al signor Presidente la verità. Ti tiravo forte io? eppure cosa mi avevi fatto, ti ricordi? diglielo tu al signor Presidente che merda di vacca era e non la solita di cavallo, sennò ti avrei perdonato! - Per tutti i Santi, esclamava dall'altre parte don Saverio, la finisci di interrogare Pasqualino? credi forse di passartela liscia? vieni fuori e la vedremo!- e batteva poderosamente a terra il bastone quasi a riaffermare la sua indiscussa autorità, alle Assise, persino!
Il signor Presidente lo indusse alla calma con un dolce sorrisetto e con un cenno della mano.
E' che io le cose storte non le posso soffrire! - concluse don Saverio, tanto per non darla vinta nemmeno all'illustrissimo signor Presidente. - Allora? fece quest'ultimo rivolgendosi ancora a Nardo. - Allora? fece eco Nardo; - ma io ho detto tutto al signor maresciallo quando mi sono consegnato. Chi era l'accalappia-cani? io! Chi aveva il dovere di accalappiarli? Io! Io non sono uomo di legge come lor signori; però il signor Sindaco qui presente lo può dire, come si costuma al nostro paese: se il cane non ha la museruola si accalappia; io lo porto al castello e poi pensa il capo delle guardie a stabilire se deve essere o no ammazzato. Forse l'aveva scritto in fronte quel cane che apparteneva a don Saverio? non parlava e non me lo poteva dire, povera bestia!L'accalappio facilmente, a parte che io sono in gamba, è vero, signor Sindaco? ma quando mi provo a portarlo via, è una parola! s'impunta, tira, cerca di mordermi. Lei si sarebbe fatto morsicare, signor Presidente? Legnato l'avrebbe! Io invece a cercar di trattarlo bene, a persuaderlo a venirmi dietro con le buone maniere. Intanto mi si fanno intorno tanti figli di mala femmina, c'eri anche tu Pasqualino, ricordi? e incominciano a fischiare, a far pernacchie, chi si ricorda più? Insomma io non posso accalappiare un cane che incomincia quella musica! Allora Pasqualino si è fatto avanti e mi ha minacciato con un sasso se non gli lasciavo subito libero il suo Fido. Ora dica: cosa avrebbe fatto lei, signor Presidente? l'avrebbe lasciato? come se io le chiedessi di andar via da qui dentro, magari minacciandolo: lei per paura mi lascerebbe andare? No! Io allora dovevo lasciare il cane? e la mia autorità dove sarebbe andata a finire? che colpa ne ho io se Pasqualino ha lanciato il sasso contro di me ed ha invece colpito il suo cane? che colpa ne ho io se quella bestia si è messa a guaire di dolore e se Pasqualino è corso a fare quel che ha fatto? Un pacco ne ha raccolto, quel maledetto, e pamfete, tutta sul capo e sulla faccia! Ora lo perdono, dopo tanto tempo; ma allora non ci vedevo più dalla rabbia e anche se lo avessi voluto, era una parola, con quella roba che mi colava giù per la faccia, sugli occhi e sul collo! - Lo perdoni, lo perdoni! infuriava intanto don Saverio, - pezzo di farabutto, di mascalzone, sacco di cenci sporchi! Te lo darò io il perdono, per la Madonna santissima, se non ti aggiusterà la giustizia; - e picchiò ancora più forte con il bastone a terra e voltò il viso paonazzo verso l'illustrissimo Presidente, come volesse dirgli: vediamo un po' qui chi la spunta L'illustrissimo si affannava intanto a sedare quel bordello, scampanellando a tutto andare. Fu di nuovo data la parola al nano.
-Vedete, vedete, - ripigliò piagnucolando il povero Nardo dopo quel subisso di male parole dalle quali un solo dubbio era sorto nel suo animo, se valesse cioè la pena difendersi, - io parlo solo per obbedire a Vossignoria che mi interroga e sarebbe sconveniente non risponderle. Non lo faccio per difendermi, io; ma solo per la verità; per il piacere di sentire uno solo che dice la verità qui dentro; altrimenti mi sarei anche io unito al coro di tutti i signori testimoni e avrei detto: sì, io volevo ammazzare don Pasqualino. E con questo? non ne avevo forse il diritto? ...  -Sappiate che non esiste alcun diritto di uccidere la gente e chi lo tenta va a finire per tutta la vita in galera - lo interruppe il Presidente, scandendo le parole e rivolgendosi a don Saverio, per prendersi almeno una piccola rivincita. Ma né il nano, naturalmente, né don Saverio erano delle aquile; e il primo accolse con indifferenza l'interruzione, il secondo approvandola con gran cenni di capo e picchiando ancora con il puntale del bastone sul pavimento, mentre borbottava: -impiccarlo bisognerebbe! -

-Ma io non volevo ammazzare, signor Presidente mio, - riprese Nardo - ti senti male per caso Pasqualino? No, è vero? Guardatelo là, sembra un fiore! e io avrei avuto il coraggio di ammazzarlo? nemmeno Vossignoria ce lo avrebbe avuto; ma una lezioncina anche lei, ch'è così buono, gliela avrebbe data. E io cosa ho fatto? Mi son detto: aspetta, ora gliela faccio passare io la voglia di combinarmi ancora di questi scherzi. Ho levato il cappio dal collo del cane e gliel'ho messo al collo a lui , a Pasqualino, ch'era venuto a cascarmi tra le braccia. Giuro che io non l'avevo cercato, sono stati gli altri a gettarmelo addosso. Vossignoria certo non può capire; ma avrei voluto vederlo nei miei panni e poi altro che quel che ho fatto io, lei avrebbe fatto.
Così finì la discolpa del nano; e l'attenzione dei giudici, l'interesse dei giurati, le risa rumorose del pubblico gli fecero l'effetto di una buona doccia calda dopo una grossa fatica. Ebbe persino l'ardire di guardare dalla parte di don Saverio, con una certa aria: egli aveva detto l'ultima parola! Si fece quasi audace, allungò la mano fuori dalla gabbia, tirò pian pianino per la giubba uno di quelli con il tricorno in testa, gli sussurrò, non badando alla faccia che quegli faceva: - dite che mi assolveranno, signor carabiniere? - Ma non ottenne risposta e fu invitato a star zitto, si ritirò e sedette sul banco, fantasticando su quello che stavano facendo e dicendo quei signori spariti dietro la porticina nera in fondo e che decidevano di lui, della sua vita, senza essersi trovati nemmeno un istante solo nel suo stato d'animo, ma discutendo così, come si fa in famiglia d'un oggetto qualunque, se darlo al fuoco o tenerlo ancora in uso per quel tanto che possa servire. Si rodeva di non esser di là, di non poter dire la sua, di assicurare, di chiarire, di convincere ch'egli era stato la vera vittima, ch'egli era andato cento volte per le strade triste e imbrattato, deriso e offeso, solo e abbandonato, senza mai una parola di conforto e con nel cuore il ghiaccio dell'odio e della vendetta. Smaniava, perché quelli non avrebbero mai potuto capire quel ch'egli sentiva. Chiuse gli occhi e ritornò con la mente al suo paese che da tanti mesi aveva dovuto lasciare per essere condotto di carcere in carcere: si vede confuso e reietto in mezzo a una folla che se lo additava e lo disprezzava, che gli porgeva il cappio non più per continuare nel suo mestiere, ma per metterselo al collo e andarsene dammezzo a loro, ora che si era reso indegno di viverci. Si sentì così nudo sotto il sole cocente d'agosto, mentre il riverbero del lastrico affocato gli mozzava il respiro; una gran fiamma di sangue, per la prima volta, gli si dipinse sul viso, gli montò alla testa e cadde in avanti annaspando con le piccole mani, quasi un cucciolo inesperto del nuoto nel vano sforzo di sottrarsi all'acqua che gli sale al muso e lo affoga, lo attrae. In quel mentre rientrava la Corte, disponendosi attorno all'emiciclo, nera, severa, compunta. I carabinieri si rivolsero verso Nardo per fargli cenno a star su, ben ritto e ascoltare il verdetto. Ma egli se ne stava immobile in quella strana positura: le mani, quelle piccole mani che si intravedevano appena sotto le maniche lunghe e logore, erano attaccate alle sbarre, come nell'ultimo disperato sforzo per divergerle; povere piccole mani, impotenti, alle prese con il mostro orrendo della giustizia, di cui quelle sbarre erano appena il più piccolo artiglio! La fronte bassa, verdastra, sporgeva tra due aste di ferro, mentre un rivolo di sangue scendendo giù per il naso si confondeva con il rosso sporco delle mattonelle del pavimento. Qualcuno opinò che si sentiva male; don Saverio disse bell'e chiaro che quello era un altro imbroglio del nano per farsi commiserare; la giustizia però avrebbe dovuto avere il suo corso! E nel silenzio diaccio della sala, nel nome del Redentore degli uomini, che se ne stava lì estraneo a tutti, attaccato alla piccola croce stillante sangue, Nardo venne condannato per tentato delitto, con tutte le aggravanti previste dalla legge.

* * *

Le piccole mani esangui furono strappate a viva forza dalle sbarre cui il freddo di morte le aveva avvinte nell'anelito estremo. Qualche donna fra i presenti mandò un piccolo grido; altri si asciugò furtivamente una lacrima, commiserando. I signori del tribunale lasciarono la sala freddi, impacciati, insoddisfatti: sembrava avessero tolto loro qualcosa. Certo non c'era stata soddisfazione a condannare un morto! Chi disse qualche parola fu don Saverio, e lo fece in buona fede, per appellarsi alla giustizia di Dio più grande di quella degli uomini: Il Signore è grande! cosa faceva in questo mondo? così l'ha tolto dalle sofferenze! 

di Fedor Nicolay Smejerlink